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Il caso Armstrong esaltazione dell’ipocrisia dello sport contemporaneo

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Sapevamo tutti che il ciclista era uscito dal tunnel della malattia e sapevamo tutti che, una volta tornato allo sport agonistico, continuava a prendere medicine specifiche per la sua patologia.

E tutti noi, assistendo alla anomala continuità di vittorie, inusuale nella prima parte della sua carriera antecedente al grave malanno che lo aveva colpito, continuavamo a ripeterci: <<ma è mai possibile che queste sue nuove risorse non siano direttamente connesse a quelle medicine che prende?>>

Abbiamo assistito, al suo rientro alle corse nel 1996 dopo aver sconfitto il cancro, a una serie enorme di trionfi senza soluzione di continuità;  gli abbiamo visto vincere nel 1998 il Giro del Lussemburgo e poi dal 1999 al 2005, per ben 7 volte consecutive, il Tour de France, battendo tutti, surclassando qualsiasi avversario, superando qualunque ostacolo fisico e tecnico.

In quel periodo, parlando con i miei amici, continuavo a manifestare il mio convincimento che, per quanto apprezzabile potesse risultare la sua rinnovata carica agonistica e immensamente amabile la grande voglia di vivere che lo caratterizzava e che ce lo rendeva simpatico anche nell’ottica della sua vittoria contro l’odiato male, non poteva essere accettato passivamente, solo per lui, un utilizzo di farmaci e sostanze che per tanti altri ciclisti erano invece giudicati prodotti dopanti.

Per Armstrong tutto era giustificato, perché la sua terapia lo prevedeva ed era considerata pienamente legale;  gli altri sportivi invece continuavano a essere controllati “a vista” e dovevano arrancare dietro di lui senza alcuna alternativa.

La “discriminazione” era evidente a tutti, Armstrong era diventato una “macchina da guerra”, l’unico a contrastarlo validamente era stato il “PirataMarco Pantani che nel Tour de France del 2000, nella durissima tappa del Courchevel, l’aveva staccato e battuto con 51 secondi di vantaggio.  Ma dal 1999 al 2005 nessun altro era riuscito a ostacolare il suo strapotere agonistico.

Eppure i “controlli” venivano effettuati solo sugli altri ciclisti e in particolare su Pantani la cui controversa vicenda peraltro è nota a tutti, compresa la sua morte, indotta proprio da quella persecuzione mediatico-sportiva che lo allontanò prima dalle corse e poi dalla sua stessa vita.

L’ipocrisia della giustizia sportiva, e dell’Usada (United States Anti-Doping Agency) e dell’Uci (la federazione internazionale) in particolare, ha portato alla squalifica a vita di Lance Armstrong solo nell’agosto del 2012, dopo il ritiro dalle gare del corridore avvenuta nel 2011.

Oggi le sue 7 vittorie al Tour de France sono sub judice, ma non sarebbe stato più logico, doveroso e corretto fermarlo prima?

La tolleranza manifestata sino a oggi nei suoi confronti per un doping, peraltro evidente e mai celato, nonché ammesso a posteriori dall’interessato stesso e dai dirigenti della sua squadra, è risultata dunque la scelta giusta nei confronti di tutto il resto del mondo sportivo?

Autore dell'articolo: Sergio Figuccia

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