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Già i miei vecchi colleghi spagnoli, una quindicina di anni fa o più, mi facevano notare come sia tutta italiana la distorta passione per il “titolo”.
Una forma mentis generale, trasversalmente diffusa e ferma a un milione di anni fa, tipica di chi è attaccato al guscio e mai al contenuto, alla sostanza.
Questo in un Paese, per giunta, con migliaia di politici, questori, prefetti, ingegneri, ministri, onorevoli, cavalieri, commendatori, avvocati e portaborse che rasentano talvolta l’analfabetismo funzionale e linguistico; anzi, che spesso lo travalicano.
Però conta il “titolo”, la posizione, anche se raggiunta per un “miracolo divino” o per un “miracolo all’italiana”, cioè per fortuna o, peggio ancora, attraverso scorciatoie e amicizie ad hoc. “Se lo ha detto lui (lei)…”, si sente spesso dire, senza però mai considerare che il “lui” (o la “lei”) in questione, al di là di titoli e posizioni, è sovente un perfetto ignorante, la cui cultura personale si ferma al proprio ambito (e sarebbe già una conquista…) e a un paio di ricette cucinate dalla consorte.
Alla faccia del lavoro sul campo, dell’esperienza concreta del “fare”, del merito oggettivo. Ecco spiegato in due righe il perché siamo diventati, oltre che un popolo di incalliti coatti, la società meno meritocratica che possa mai esistere.