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Tecno-sitter

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Entrano nella mia stanza in clinica in tre, più il passeggino, trascinato dalla mamma con un po’ di impaccio, mentre il papà tiene in braccio la bimba. Si siedono davanti a me e mentre la signora comincia a dirmi come si sente dopo qualche mese di terapia, la bambina, due anni e mezzo e ciuccietto ben piantato tra le labbra, mostra subito segni evidenti di nervosismo e insofferenza. Il padre la tiene molto pazientemente sulle ginocchia, mentre lei, in piedi in precario equilibrio, si lamenta, piagnucola, gli tocca di continuo la faccia, gli tira il naso come fosse di plastica, gli scompiglia a fondo la capigliatura folta, a mo’ di un accurato shampoo a secco. Dopo circa un quarto d’ora di questo incessante lavorio subito dall’uomo in totale e rassegnato silenzio – solo ogni tanto qualche parolina sussurrata nell’orecchio della figlioletta nel vano tentativo di contenerne l’iperattiva esuberanza – lui decide di intervenire nel colloquio, sostanzialmente allo scopo di rimodulare al ribasso alcune affermazioni della moglie relative al suo ritrovato benessere soggettivo. Ed è a questo punto che il papà tira fuori il cellulare e dopo pochi minuti di uso collaborativo e tutoriale tra padre e figlia, decide di lasciarlo nelle mani della bambina e svolgere così un ruolo più attivo nella consultazione. La scena che io osservo (su più piani) con attenzione e molta curiosità cambia radicalmente. Se fino a qualche istante prima c’era unicamente una donna che parlava e un uomo, quasi assente, impegnato a subire le piccole torture manipolative della figlia, pena un aumento a livelli di guardia della sua irrequietezza, adesso c’è una moglie silenziata, un marito molto attivo nello spiegare il suo punto di vista relativo allo stato di salute psichica della consorte, e una bimba, quasi sparita dalla scena, accoccolata immobile sulle gambe del padre, con lo sguardo fisso sul display, totalmente assorta e immersa nella sua esperienza digitale e la cui attività vitale è unicamente segnalata da minimi quanto rapidi movimenti del pollice che aggiornano, con sapienza e destrezza, lo schermo e le sue immagini. Mentre la mia attenzione cerca di distribuirsi equamente sulle lunghe e articolate osservazioni del padre e sull’affascinante e un po’ inquietante trasformazione subita istantaneamente dalla bambina, non posso fare a meno di ragionare sul potente effetto sedativo e calmante che lo smartphone paterno sta avendo sulla bimba e mi chiedo, solo per un momento, se questa intensa esperienza gratificatoria alla quale sto assistendo non possa rappresentare la premessa per abituare, da qui in avanti, la bambina, a ricercare, ogni volta che si trovi in uno stato d’animo di disagio, fastidio o inquietudine, una stimolazione esterna che possa regolare il suo stato emotivo. Mi dico, tra me e me, che forse quello che sto osservando è uno dei meccanismi psichici germinali della vulnerabilità alle dipendenze patologiche. L’idea mi turba un po’ così come continuare a osservare la bimba nella sua radicale mutazione, ed è per questo che tento di rompere una certa tensione dicendo a voce bassa “forse non è buono che i bambini usino troppo a lungo il cellulare”; dopo qualche minuto, meno sommessamente, provo a rilanciare “prima dei tre anni i bambini non dovrebbero usare display digitali”. Ho l’impressione che ne’ in un caso, ne’ nell’altro mi abbiano neanche sentito e, se lo hanno fatto, le mie parole e il loro significato siano completamente svaniti all’istante.

Autore dell'articolo: Daniele La Barbera

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