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L’accademia del selfymondo

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Ricordo come fosse ieri la prima tesi di Laurea di Medicina presentata in power point. Non saprei dire se accadeva venticinque o trenta anni fa ma in compenso rammento con chiarezza il relatore, professore di Chirurgia, che vantava orgogliosamente questa nuova tecnologia.
Così, trionfalistici e speranzosi, anche l’università e i suoi adepti entrammo nell’era digitale e pure io, di lì a poco, portai in cantina lucidi e diapositive e spostai con entusiasmo al pc tutta la preparazione di lezioni e relazioni a congressi. La quantità di benefit e di tool che in tutti questi anni l’informatica e la rete ci hanno fornito per la ricerca scientifica e la didattica è impressionante e chi, come me, ha vissuto a pieno l’era predigitalica, può solo attestare convintamente lo straordinario salto evolutivo che le tecnologie ci hanno consentito. E se, grazie alla grande capacità del nostro cervello di adattarsi in modo velocemente neuroplastico alle implementazioni elettroniche delle sue funzioni (che il computer all’inizio si chiamasse cervello elettronico può solo segnalare la simmetria/sintonia che esisteva già allora tra cervello virtuale e cervello naturale) tutto questo oggi ci sembra del tutto scontato, come fosse sempre esistito, vale la pena di conservare memoria, come io ogni tanto cerco di fare nei miei post, della affascinante traiettoria di sviluppo tecnologico che oggi ci ha portato a quello che io chiamo Selfymondo; accezione non solo critica, ne’ tanpoco soltanto un po’ umoristica, ma, come cercherò di dire più avanti, con una discreta base semantica e concettuale.
Se quella tesi in power point potrebbe idealmente rappresentare l’inizio di questa traiettoria, la rapidissima diffusione della DAD ne testimonia l’evoluzione inarrestabile; un progresso tecnologico che durante il lockdown e buona parte della pandemia ha coinvolto in maniera rapidissima una quantità enorme della popolazione, di tutte le fasce di età, chi docente, chi discente, e che sommata alla schiera di lavoratori in smart working ha creato uno dei più curiosi paradossi estremi, in tempo di COVID-19: mentre il mondo e la vita rallentavano i loro ritmi e rarefacevano i contatti e gli scambi interpersonali, fino a fermarsi del tutto, le tecnologie della comunicazione subivano una velocizzazione paurosa, una diffusione estrema e inimmaginabile, favorendo l’accesso al Selfymondo anche a quanti nei confronti del pc e del digitale fino ad allora avevano nutrito resistenze o idiosincrasie. Vale la pena di ragionare sul fatto che se la pandemia fosse arrivata pochi decenni fa, avremmo per qualche anno dichiarato il default completo della didattica, della formazione e di tutte quelle numerose attività che siamo riusciti a trasferire con successo sulle piattaforme digitali. Ma grazie alle tecnologie abbiamo salvato molto, non tutto.
La DAD ha rappresentato un modo efficace di proseguire l’insegnamento ma, mentre l’apprezzavamo, ne sperimentavamo i limiti e le criticità, che, per contrasto, ci hanno fatto meglio comprendere quanto sia importante e insostituibile la relazione in presenza, e quanto questa differisca dalla relazione “in assenza” nel Selfymondo. Ben presto abbiamo tutti capito, alunni e insegnanti, docenti e studenti, quante cose importanti e irrinunciabili accadano quando corpi, sguardi, gesti, emozioni, intenzioni e sensazioni interagiscono in uno spazio fisico e come tutto questo si “raffreddi” drammaticamente nelle relazioni virtuali attraverso un display. Un’assenza di elementi fondamentali dell’incontro tra esseri umani che può spiegarci da un lato la fatica e la vaga frustrazione che ben presto abbiamo cominciato ad avvertire con il perdurare della DAD, dall’altro il calo evidente delle performance dei nostri studenti “daddati”.
Lo sviluppo però – ahimè o per fortuna – non si arresta, e il mirabolante progresso di cui si accennava, oggi ci consente di celebrare un altro traguardo significativo: a Catania, alla Facoltà di Scienze politiche, si è svolta la terza laurea “ibrida” della storia accademica, nell’aula universitaria in presenza e nell’aula digitale nel metaverso. In quest’ultima gli avatar di parenti ed amici assistevano all’esposizione del laureando, anche lui avatarizzato, mentre contemporaneamente dissertava ai professori in carne ossa, avvalendosi di una ormai obsoleta tecnologia delle immagini che si chiama power point (…). Nell’auditorium virtuale, grazie alla piattaforma Spatial, i presenti, tra i quali anche giornalisti e curiosi, hanno potuto visionare le slides, sfogliare l’elaborato di tesi, interagire col candidato.
Una interessante contaminazione del reale, una bilocazione attraverso una sorta di teletrasporto digitale, una dislocazione virtuale che apre orizzonti affascinanti a quella traiettoria che abbiamo, magari arbitrariamente, fatto partire con la prima presentazione in ppt. Come si vede, avere un doppio digitale attivo in un metaspazio mentre nel frattempo si opera concretamente nel reale in presenza, stimola possibili riflessioni che sembrano intrecciare psicologia, filosofia, fantascienza e fanno venire un po’ di vertigini nel considerare le varie possibili interazioni tra queste due realtà parallele. A cominciare dal fatto, che accennavo prima, che dovremmo estendere molto ampiamente il concetto di “selfie” perché le innumerevoli rappresentazioni digitali di noi e delle nostre esperienze, sempre più complesse, possiamo ormai considerarle come un infinito sistema di specchi virtulizzanti, attraverso cui “selfiamo” quelle parti di mondo e del reale sempre più allargate e articolate che ci possono implicare o riguardare. Un mondo autoriprodotto tale e quale, ma anche un poco reinventato, moltiplicabile in tante copie virtuali, clonazioni rimodellate della realtà, che l’aumenteranno sempre di più con esiti tutti da scoprire in un prossimo futuro; ma che ci stanno già costringendo a riaccomodare molti aspetti della nostra antropologia, non senza qualche difficoltà; come quella che ho provato, non sapendo cosa dire, quando mia moglie, mentre le stavo raccontando della laurea ibrida, mi ha chiesto: scusami, ma i parenti dov’erano?…

Autore dell'articolo: Daniele La Barbera

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